Aruba, l’isola che un italiano conquistò con la polenta

Foto: ©Darryl Brooks/123rf

Un belga, una tedesca, un’italiana e due arubani. Al tavolo del Wilhelmina sono in cinque quando Renwick Heronimo, che di mestiere fa la guida turistica, racconta di un certo Giuseppe Frigerio che tra il 1840 e il 1880 in una data non definita, decide di fare un viaggio oltreoceano che gli cambia la vita.

«Ad Aruba uno dei piatti più consumati è italiano, noi lo chiamiamo funchi, ma in realtà è la polenta», rivela curiosamente Heronimo con il suo inglese sporcato da inflessioni in papiamento.
«Giuseppe Frigerio arrivò sull’isola ai tempi della febbre dell’oro, sposò la figlia del direttore di una miniera e si stabilì portandoci la polenta!». Quando incuriositi i commensali continuano ad ascoltare il resto della storia di Heronimo, alla cameriera hanno già ordinato un barracuda, un ceviche, una kimchi salad, e gamberi con cetrioli e noodles, e l’hanno congedata con un masha danki!

In attesa dei piatti, sul tavolo viene offerto un amuse-bouche di balchi di pisca, ed è lì che Heronimo continua a raccontare: «Frigerio ci vide lungo e chiamò una quarantina di italiani del Nord, abili a lavorare le pietre. È lì che si formarono le prime comunità di connazionali sull’isola “dove c’è l’oro”»(questo il significato di Aruba, ndr.).

Di quello che è accaduto a Frigerio, dopo che si è arricchito di oro e lasciato un’eredità gastronomica come la polenta, nessuno ne ha saputo più nulla. Eppure, quel che è certo è che la soluzione all’enigma su quale sia la vera identità di un’isola che non produce quasi nulla, ma importa tutto; che non ha una cucina tipica, ma è una mescolanza di influenze americane, europee e latine; che non parla una sola lingua, ma fra l’inglese e l’olandese ci infila una creola, si risolve in poche parole: Aruba un’identità non ce l’ha, al contrario è un miscuglio perfetto di cose e intenzioni che la rende la One Happy Island. E il simbolo di quest’essenza è quel tavolo di giornalisti in cui coesistono pietanze gastronomiche di ogni dove, lingue di parti diverse del mondo, in un equilibrio sorprendentemente felice.
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